Archivio mensile:gennaio 2012

Aspettando godrò

Prova ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.

Se per la seconda volta in poche ore mi imbatto in queste parole di Samuel Beckett, penso, sarà una specie di segno. Scelgo di raccoglierlo evitando comunque di giurarmi che da domani saprò fallire con coraggio, perché l’assurdo lo lasciamo a Beckett. Lo raccoglierò nel modo più inutile possibile: scrivendoci su.
Due volte, dunque, da fonti e in momenti diversi. La prima venerdì sera dalla viva voce della mia insegnante di teatro, come congedo al termine di una lezione intensa. La seconda poco fa, mentre me ne stavo stesa sul divano a leggere il romanzo di una ragazza che conosco personalmente ma “non abbastanza”, mi è venuto da pensare, dopo essermi riconosciuta in alcuni passaggi di quella storia (come spesso avviene quando si legge un libro, ma con l’aggravante che in questo caso per parlarne ogni tanto basterebbero un sms, un luogo e un’ora).

Fallisci a chi, Beckett? Sì, lo so che se tutti imparassimo a convivere un po’ più a cuor leggero con i nostri piccoli e grandi fallimenti il mondo sarebbe più bello, ma potreste fallire voi e lasciarmi sprecare in santa pace la mia esistenza nel tentativo, seppur fallimentare, di essere infallibile?
Non posso farci niente, sono nata sotto il segno del leone e cresciuta con un padre che, per troppo amore, ha insinuato in me l’idea che volendo potevo (e quindi dovevo) essere la prima. L’errore, in questa visione, è circoscritto in 3 parole fra parentesi che forse con il tempo ho aggiunto da sola. Ma il succo è, Beckett, che se anche un giorno imparassi a fallire senza vergogna, poi dovrei imparare anche a perdonarmi per questo e ti giuro che la trafila è lunga; e ad ogni modo sono convinta che se mai nella vita mi riuscisse di scrivere qualcosa di vagamente simile ad Aspettando Godot, in seguito potrei anche accettare qualche piccolo fallimento qua e là.

Un’altra cosa dice sempre mio padre: che ho il vizio di iniziare le cose e non portarle mai a termine. Eliminando il mai, per il resto mi trovo d’accordo. Ci ho ripensato poco fa, mentre me ne stavo in ammollo in quella sensazione di lieve malinconia che provi quando leggi l’ultima pagina di un libro e mi sono resa conto di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che mi è capitato. Perché io, so che potrebbe sembrare il vezzo della protagonista di una storia scritta male, ma non finivo un libro da mesi. Mi fermo a un passo dalla fine, come faccio quando ascolto una canzone con l’ipod e mando avanti a circa 10 secondi dall’ultima nota. Ho un problema con i finali, credo che in qualche modo mi spaventino come mi ha spaventata l’ultima persona che mi disse “ti amo”, nel momento preciso in cui me lo disse, ed io pensai “sarà terribile perderlo, se finirà”.

E così è stato. Tanto che ancora adesso mi capita di pensarci senza alcun motivo; oggi, ad esempio, mi sono improvvisamente ricordata che presto quella persona avrà le chiavi della sua nuova casa e, fra tutte le cose che potevo chiedermi, mi sono chiesta come si sentirà quando ci farà la doccia per la prima volta. Se canterà a squarciagola, come faceva sempre sotto la doccia, fregandosene dei vicini e facendomi morire di vergogna. Se si sentirà più libero o più solo, mentre in quel bagno rimbomberanno per la prima volta i versi di Summertime, resi un po’ grotteschi da quelle sue vocali sguaiate.

Comunque, Beckett, volevo dirti che prima stavo solo scherzando: in fondo prendo davvero le tue parole come un piccolo messaggio e so che mai, come in questo momento della mia vita, sono stata pronta a fallire. A provarci, quanto meno. Ad avere fiducia, in me e negli altri. Ad aspettare che qualcosa arrivi. Perché ovviamente non arriverà “quando meno te lo aspetti”, come in molti sostengono, anzi: se siete intelligenti, per favore, non ditela questa cosa. Perché ormai la maggior parte di noi dagli altri non si aspetta proprio un cazzo e allora, gente, vogliamo davvero fare meno di così?

Un treno che si chiama desiderio


Come si è detto, i mezzi di trasporto sono spazi molto teatrali: è una semplice questione di distanze, che ci costringe in qualche modo ad “avere a che fare” con l’altro o, per lo meno, che c’impedisce d’ignorarlo del tutto.
Un interregionale diretto a Udine, un giorno, mi ha regalato questa scena:

C’è una signora anziana che parla, parla un sacco: racconta, commenta, ricorda. Ha degli occhi molto blu, vivi, senza quel velo che spesso hanno gli occhi degli anziani. Ha proprio voglia di parlare, si vede. Accanto a lei un uomo di una ventina d’anni più giovane, si direbbe circa sessanta, (suo figlio?) sembra distratto, risponde a monosillabi, a volte grugnisce e basta.
Il treno si ferma alla stazione di Sacile e la donna s’illumina: “Ti ricordi”, dice, “quando siamo venuti a Sacile a mangiare i calamari fritti con la polenta?”. Lui non risponde. “Erano buoni…” continua lei, guardandolo. Lui non conferma, ma lei non sembra averne bisogno: se lo ricorda.

In arrivo alla fermata successiva i due si alzano. Lui raccoglie una borsa in fretta e furia, abbozza una specie di sorriso e con un impercettibile cenno del capo mi saluta e cerca l’uscita. Lei si alza con fatica, ma senza smettere di sorridere. Poi si rivolge a me: “Prosegue?” “Sì, fino a Udine”, rispondo. “Udine. Non ci sono mai stata, con tutte le volte che sono venuta a Pordenone! Io sono di Parma. Com’è Udine?” “Ah, molto piccola”, dico, come se le dimensioni di una città potessero avere un qualunque tipo di rilevanza in un giudizio su di essa. Poi aggiungo: “Parma dev’essere bella”. “Sì, è bella. Anche a Udine ci sarà qualcosa di bello da vedere…” insiste. Esito un secondo, poi rido. “Certo”, le dico, “come dappertutto”. Lei annuisce. “Abbiamo tanti bei ricordi” aggiunge infine, con una dolcezza che non credo di avere mai sentito nella voce di nessuno. E augurandomi “buona continuazione” raggiunge il suo compagno di viaggio.

E mentre la guardo scendere dal treno per un attimo sento affiorare il desiderio di arrivare al mio traguardo così: con quello sguardo, quel sorriso, e con quella dolcezza poter dire “abbiamo tanti bei ricordi”.
Perché in fondo credo che i bei ricordi avranno poco a che fare con le soddisfazioni che ci sforziamo di accumulare ogni giorno. Forse, chi lo sa, saranno molto più simili al cartello di una stazione e ad un piatto di calamari fritti con la polenta.

Say fromage

Parigi, 31 dicembre 1999. Un paio d’ore prima della mezzanotte che separò il millenovecento dal duemila, in un restaurant de la Ville Lumière, una donna raffinata – perfettamente coiffata e vestita con gusto impeccabile – brandì una macchina fotografica analogica e immortalò una ragazza dai capelli crespi intenta ad osservare con immeritato disprezzo i commensali del tavolo vicino (un gruppo di rumorosi italiani, colpevoli solo di attendere il nuovo millennio con il folkloristico entusiasmo che li contraddistingue a livello internazionale).
Quella donna era mia madre e quella foto fu scattata per un motivo preciso: dimostrarmi come, talvolta, una faccia possa comunicare molto più di quanto dovrebbe.

La missione andò a buon fine, considerando che ancora oggi ricordo perfettamente l’espressione di sdegno sul volto di quella me ancora minorenne (dettaglio che non aggiunge nulla, ma ci tenevo). Temo però che l’obiettivo fosse più ambizioso: invitarmi a porre un filtro un po’ più consistente nel passaggio fra pensiero e reazione esteriore.
Non a caso si dice che le mamme abbiano sempre ragione.
Perché le persone “trasparenti” ci piacciono sulla carta, ma nel concreto tendiamo a preferire quelle più pronte a dire ciò che vogliamo sentire. La sincerità non paga e praticarla è un’ottima tecnica per coltivarsi dei nemici.

Tuttavia, come al solito, non seguii il consiglio di mia madre e so bene che ancora oggi mi capita di sfoderare quella  stessa faccia. Lo so perché i più attenti me lo fanno notare e a volte qualcuno mi chiede perfino: “Vabbè, ma tutti ‘sti anni di teatro manco a questo ti sono serviti?”.

No.

Anzi, mi sa che hanno lavorato in senso opposto. Il che mi offre nuovamente l’occasione perfetta per approfondire il dibattito “realtà della vita vs finzione della scena”, ma mi sento di rimandarlo ancora.
Mi limiterò soltanto a dire che, nonostante la mia incapacità di fingere in maniera credibile, che causa svariate complicazioni alla mia vita privata (dall’impossibilità di complimentarmi con le tante inconsapevoli madri di brutti neonati a quella di scartare con serenità un pacchetto regalo, fino alla lucida consapevolezza che la mia carriera si fermerà sempre un passo prima della leccata di culo, vale a dire qui), talvolta capita che io riesca lo stesso ad ingannare qualcuno.
Ma se fingo in scena non mi crede nessuno.