Archivio mensile:gennaio 2012

The importance of not being Darla

Chi ha frequentato un corso di teatro anche per una sola lezione, avrà senz’altro sentito pronunciare la parola “ascolto”. Perché la capacità di ascoltare è la base e se non ce l’hai puoi anche avere un talento insuperabile ma in scena non funzioni. Se t’innamori della tua intuizione e la segui a prescindere, senza tenere conto dello spazio, delle circostanze, del qui ed ora e soprattutto degli altri, fai schifo.

Il problema è che capita continuamente di scoprirsi in scena con il “pilota automatico” inserito, non si è mai abbastanza allenati contro questa trappola. Io, in compenso, sul piano ascolto mi sono allenata molto nella “vita reale” (che poi, sulla realtà della vita e la finzione della scena ci sarebbero parentesi da aprire, ma non ora, ché perdo il filo).
Ho ascoltato un sacco, soprattutto faccende di cuore, e ho investito parecchio del mio tempo a dispensare consigli assennati, ostentando cognizioni di causa a casaccio. E, grazie a questo mio talento, ho trascorso l’adolescenza e alcuni degli anni successivi a sentirmi definire “saggia”, “matura”, “comprensiva”, “empatica”, “disponibile” (e non nell’accezione interessante del termine).

Ora. A chiunque sia convinto che gli argomenti preferiti di ogni donna siano uomini, sesso e amore dirò una cosa scontata: No. E aggiungerò che io, personalmente, detesto ascoltare questi temi per i seguenti 3 motivi almeno:

1) Sono circa quattro anni che non mi capita d’innamorarmi, per cui se vuoi raccontarmi che ti sei innamorata o, peggio ancora, che uno si è innamorato di te io ti odio, perché se esistesse una giustizia a questo mondo al posto tuo ci sarei io.

2) Se sei in crisi va bene, perché mi fai sentire più fortunata, ma visto che poi sono in poche quelle che sanno regolarsi su quando sia l’ora di mettere un punto al dramma, va a finire che mi ritrovo a ripetere le stesse cose per giorni, settimane, mesi. Le stesse parole. Invano. Perché una donna innamorata non ti ascolta. Ed è piuttosto deprimente.

3) Se sei felice, ecco. Sono contentissima per te, perché sicuramente ti voglio bene. Però voglio che tu rifletta su questa cosa: le coppie felici, vissute dal di fuori, sono di una noia insostenibile e lo sappiamo tutti, altrimenti nelle serie tv non esisterebbero i conflitti e a quest’ora  Ridge e Brooke sarebbero a Big Bear per celebrare le nozze d’oro soli come cani, visto che, a quanto mi risulta, la mantide s’è fatta inseminare da chiunque tranne che da lui.

A proposito di Beautiful, introduciamo un altro argomento importante: nessuno è entusiasta di interpretare la parte dell’attore non protagonista a vita. Mi sembra ovvio. Voglio dire, chi vorrebbe essere Darla? una donna che (tralasciando i facili commenti sulla scelta del nome meno azzeccato nella storia della tv) per vent’anni sta a guardare quello che fanno gli altri, senza fornire il minimo contributo, per poi guadagnarsi il suo posto nel mondo solo un attimo prima di partorire con dolore e morire schiantata in un incidente d’auto?

Per cui, ragazze, ve lo confesso: io mi sono licenziata anni fa. E mentre voi stavate lì e continuavate a raccontare avventure al mio cartonato, io sono fuggita dalla porta sul retro alla ricerca di qualche altro ruolo a caso. Così, anche solo per il gusto di variare. Sto studiando per un ruolo da cattiva, a dire il vero, anche se non mi ci sento portata, ma trovo che ne valga la pena perché i cattivi sono i più divertenti. E comunque non è stata proprio una mia idea, il primo a suggerirmelo fu un attore, una decina di anni fa, durante uno dei miei primi seminari teatrali. Lui, che conduceva il seminario e aveva indubbiamente una certa esperienza, nel corso di un esercizio mi disse: “Ok, è vero che sei giovane” (ed era vero sì, avevo 20 anni), “ma non devi trincerarti sempre dietro questa freschezza, altrimenti finirai a fare solo il ruolo dell’amichetta buona“.

Trovai la prospettiva sinceramente orribile, così decisi di impegnarmi su questo fronte e lui, per aiutarmi a perdere quella fastidiosa innocenza che rappresentava un ostacolo per la mia crescita artistica, al termine del seminario decise di darmi delle lezioni private a casa sua; funzionarono, credo, ma lui non lo seppe mai, perché abbandonò il cast il giorno dopo. E so che potrebbe sembrare l’incipit di una storia triste, ma tirate pure un sospiro di sollievo, perché vi assicuro che fu un pomeriggio di gioia. Di vera gioia.

Comunque, ritornando a monte, vorrei solo dichiarare questa cosa mettendola nero su bianco: io, quando sarà il mio turno, giuro che non vi dirò un cazzo. E non per timidezza o discrezione o pudore. Per pietà.

Best Loser Awards: and the winner is Johnny!

Buongiorno!”, esclama Johnny tutte le mattine, appoggiando il suo casco sulla scrivania. Lo fa con un’enfasi volutamente eccessiva e subito aggiunge “come va stamattina?”, sperando di cogliere una vena polemica nella risposta di qualcuno ma sapendo che riceverà solo dei politici “bene grazie” . E allora si toglie la sciarpa ed espira a fondo, aspettando di poter annuire e replicare con un affettatissimo “me ne compiaccio“. E se, per semplice educazione, si decidesse di concedergli un cortese “e tu?” si può star certi che risponderebbe con queste precise parole: “bah. La facciamo andare“.
Ecco perché da un pezzo ormai nessuno glie lo domanda più, povero Johnny.

Johnny ha capelli corti biondo-rossicci, occhi chiari ma troppo piccoli per farsi notare, labbra sottili e una corporatura slanciata ed asciutta, nonostante impieghi la maggior parte del suo tempo ad ingoiare caramelle. Qualcuna sostiene sia un bell’uomo, ma la maggior parte – valutandolo nel complesso – non è d’accordo, povero Johnny.

Johnny è una di quelle persone che a prima vista non sapresti dire quanti anni abbiano. Ama molto dire cose tipo “bella lì, ma vai tranquillo, alla grande, dibbrutto, yeah” e una volta qualcuno giura pure di averlo sentito pronunciare un “geddàun” al telefono, cose che hanno un gusto così squisitamente moderno da farlo apparire come uno di quegli articoli dismessi che sulle bancarelle si chiamano vintage per costare venti volte quel che valgono. Stando agli indizi, il nostro Johnny dovrebbe avere appena passato la quarantina, il che lo rende troppo vecchio per legare coi veri giovani e troppo gggiovane per far parte di quelli che contano. La vita gli ha affidato il ruolo dello sfigato e lui lo veste così bene da meritarsi l’Oscar. Povero Johnny.

Johnny subisce dunque l’emarginazione dei giovani e il mobbing dei vecchi e passa le sue giornate a far finta di impegnarsi in un lavoro che detesta e che evidentemente non gli riuscirebbe neppure in un clima più disteso di quello in cui è costretto ad operare, neppure senza aver gente che sta lì con le fauci spalancate in attesa che compia un errore per poterselo sbranare. E di errori, Johnny, ne compie tanti. Elemosina attenzioni, per esempio, fingendo di aver avuto trovate geniali e rincorrendo i capi per i corridoi a suon di “c’è una cosa che volevo condividere con te!“, così loro gli rispondono “è una cosa lunga? perché prima devo…
Uh! e se ne sentono di cose che i capi devono fare prima di poter ascoltare cos’ha da proporre Johhny: rivedere i conti in amministrazione, scappare in riunione, andar via di corsa o addirittura portare il cane dal veterinario. Fra un po’ succederà che, quando Johnny avrà un’illuminazione, qualcuno dovrà urgentemente innaffiare le piante o correre a finire il sudoku. Ma come dar loro torto se Johnny, per esprimere un semplicissimo concetto, ci mette un quarto d’ora di ammiccamenti e inutili, sbrodolosi condimenti? E’ logico, no? povero Johnny…

Che a guardarlo lì così, in piedi in mezzo all’open space, come un attore in attesa di un applauso che non parte, come un uomo senza un briciolo di credibilità alcuna, non sai nemmeno se quello che provi è più pena per il fastidio che ti dà, o più fastidio per la pena che ti fa.
Lo vedi tornare alla sua scrivania e pranzare con un paio di barrette ai cereali, per poter recuperare quell’ora che alla fine gli servirà per fuggire prima, alle 6 in punto, da una splendida figlioletta di pochi anni, di cui lui spesso parla affermando con aria compiaciuta che “sta diventando davvero godibile quella bambina lì“, e da una moglie che molto probabilmente gli metterà le corna o almeno si spera, perché se uno non è capace di essere genuino nemmeno quando parla di sua figlia allora insomma, Johnny, povero un cazzo!

Tutto è teatro, malgrado noi stessi

La metropolitana è un microcosmo per viaggi brevi e senza pretese. Non ti promette niente: sai benissimo che, una volta entrato, al massimo uscirai nel punto opposto della stessa città. Eppure, nel tempo di qualche fermata, storie individuali si respirano addosso, potrebbero anche prendersi se lo volessero. Nessuno lo vieta.

Si muove sotto terra, succede sotto la superficie senza che il resto del mondo se ne accorga: uno si lava i denti, va in farmacia, porta a pisciare il cane e mica sta a pensare che sotto ai suoi piedi stanno passando decine e decine di persone. È uno spazio che – in alcune fasce orarie, s’intende – contiene il giusto numero di corpi, alla distanza necessaria per potersi osservare. Non vicini come negli ascensori, che ci costringono ad esaminarci attentamente la punta delle scarpe, a rileggere vecchi sms, a non respirare quasi; ma neppure lontani come per strada, dove siamo liberi di ignorarci, cambiare marciapiede, scomparire dietro l’angolo.

Ogni nostro ingresso è un’entrata in scena. Diamo una rapida occhiata a centottanta gradi e prendiamo posizione, sfoderando una perfetta coscienza dello spazio, che neanche i migliori allievi-attori saprebbero essere altrettanto precisi nel distribuire una tale equidistanza fra sé e ogni altro essere vivente. Tuttavia, se decidiamo di sederci, dimentichiamo gli equilibri e corriamo ad accaparrarci il posto all’estremità della fila, per avere almeno un lato di noi stessi libero dal contatto con corpi altrui.

(Ditemi che lo fate anche voi e che non è un problema mio.)

Stamattina il vagone è abbastanza sgombro da lasciarmi la possibilità di scegliere il mio sedile all’estremità di una fila tutta vuota. Ma, fermata dopo fermata, lo spazio comincia a riempirsi e di fronte a me si siedono due giovani donne biondissime. Bionda numero 1 ha in mano un pacchetto (regalo di Natale ricevuto da bionda numero 2), lo scarta e vi estrae due pesciolini di ceramica Thun.

Bionda n°1: “Ah, che carini, sono quelli dei segni zodiacali…”

(il tono di voce lascia intendere che il suo profilo astrale non abbia nulla a che fare coi pesci)

Bionda n° 2: “Sì sì, ma non te li ho presi per quello, è…”

(cerca nella memoria qualche aneddoto comune legato a dei pesci, che possa trasformare in mezzo secondo un regalo riciclato in un “regalo pensato”)

Sovrumani silenzi.

E mentre io nel pensier mi fingo ove il cor non s’imbarazza, ecco che entra un nuovo personaggio e si siede alla mia destra. Sposto la borsa e, risistemandomi entro i confini del sedile che mi spetta, un po’ mi stizzisco per questa “invasione di campo”. Trovo sempre lievemente imbarazzante il momento iniziale, in cui i due corpi cominciano ad aderire e tu cerchi di gestire nel modo più naturale possibile il tuo istintivo desiderio di ritrarti, finché scopri – salvo casi estremi – che basta poco per abituarsi alla vicinanza dell’altro, fino a non farci quasi più caso. Si appoggia la coscia a quella di uno sconosciuto, il gomito sul suo avambraccio e dopo un paio di fermate ci si è incastrati alla perfezione. Tanto che potrebbe perfino succedere, ad un certo punto, che l’uscita di scena del proprio vicino ci costringa per un attimo a patire la sua mancanza. Come quando oggi, alla fermata della stazione centrale, quel tizio lì si è alzato all’improvviso e ho sentito come un colpo di vento.