Light killers

light killerQuesta è una fiaba sulla luce.
Ma che cos’è, la luce? Un talento, una qualità che tutti portiamo dentro, oppure un pericolo?

Così la regista Laura Pasetti introduce Light Killer, spettacolo in lingua inglese, tradotto dal testo originariamente italianissimo di Magdalena Barile, in scena al Piccolo Teatro Studio di Milano.
Sta a noi decidere, dice, spiegando al pubblico che ciò che vedrà sarà soltanto “uno stimolo a porsi delle domande” su questa luce, sul suo rapporto con le ombre. Per questo all’ingresso in sala ci è stato consegnato un barattolino di vetro trasparente contenente un piccolo congegno elettrico, che saremo chiamati ad azionare in un paio di momenti: basterà tenere schiacciato il pulsantino sul coperchio e la piccola lampadina al suo interno si accenderà.

Sul palco un uomo, Mikail, in luce, e una donna, Hotcal, al buio. Mikail e Hotcal non si conoscono. Due esseri potenzialmente luminosi, vestiti di bianco, che ci parlano della propria difficoltà di brillare. Ad aiutarli, in questo racconto, nessuna scenografia o oggetto di scena: solo i giochi di un disegno luci pulito ed essenziale.

In scena i protagonisti eseguono alcuni esercizi – è evidente che brillare sia una questione di allenamento, strategia, volontà – per combattere le ombre impersonate da due inquietanti figure vestite di nero, con il volto coperto da una maschera fluorescente, accompagnate da ritmi tribali e suoni primordiali, simili a echi di singhiozzi e pianti di neonati: sono loro i “light killers” che disturbano i sogni di Hotcal, minacciandola ogni notte di rubare la sua luce.

– Esercizio 1: Assimilazione. Ovvero illuminarsi di luce riflessa.

Mikail e Hotcal iniziano a sfiorarsi. Con cautela, timore (può un solo tocco spegnere la luce altrui?) iniziano a conoscersi (Mikail: La tua luce funziona sempre? / Hotcal: Certo, sempre! Tranne quando sono sola).

– Esercizio 8: Dimentica che DEVI brillare.

Smettere di concentrarsi sulla propria luce per vedere meglio la luce dell’altro. Che tanto conoscere l’altro quasi sempre porta a scoprire qualcosa di sé (H: Credo che tu ti stia innamorando / M: Di te? / H: Forse di te)

– Esercizio 38: Esercizio di gruppo.

Ogni luce ha il suo corpo – allora forse questa luce è l’anima? – ma è vero anche il contrario? Mentre ce lo chiediamo ecco che si accendono, tra il pubblico, le prime lampadine, ognuno prende il proprio barattolo di vetro, schiaccia il pulsante e osserva per qualche secondo la propria luce brillare tra le mani. La propria luce, tra le luci degli altri.

– Esercizio 56: Psicodramma.

Non avrò altro corpo all’infuori del mio. Non avrò mai un nuovo corpo di cui innamorarmi o di cui fare innamorare qualcun altro. Da far brillare, per segnalare il traguardo di un corpo altrui.
“Una luce, senza il suo corpo, non vale una scintilla”. Intanto tra il pubblico, piano piano si riaccendono le lampadine.

La mia luce sta diminuendo? Si sta spegnendo?” chiede Hotcal, proprio mentre io, seduta in platea, sto guardando la lucina tra le mie mani e sto pensando che all’ingresso mi avranno dato una lampadina difettosa perché la mia luce, in confronto alle altre, sembra molto più fioca. L’ho pensato davvero. Curioso, no?

Sul palco gli attori giocano con il buio e la luce nello spazio circostante, ma non sembrano fare altrettanto con i chiaroscuri interiori. Ci giocano, sì, ma non come farebbero due bambini. Non “per davvero”. Così, quando Hotcal dice “ora sta’ a vedere: mi trasformo in un fuoco che divampa” potremmo dire che si scalda, sì, ma non arde mai. Il fuoco brucia, distrugge, divora, è faticoso da combattere, eppure l’attrice non sembra fare alcuna fatica. Non si spinge fino alle estreme conseguenze e non sa farci innamorare.

Ed è un vero peccato, perché il testo di Magdalena Barile (che si può leggere in versione originale nei sovratitoli) è ricco di sfumature, si capisce che potrebbe far ridere e l’attimo dopo piangere, appare costantemente disseminato di piccoli indizi, doppi sensi, trabocchetti. Ogni parola sembra rimanere lì sospesa nell’aria a sottolineare il proprio sottotesto, mentre il piano del racconto procede rivelando di continuo l’esistenza di un mondo più profondo e conduce realmente lo spettatore a interrogarsi, proprio come la regista si augurava accadesse.
“È così secco qui, che basta poco per mandare tutto a fuoco”.

Al termine degli applausi la regista e gli attori si fermano per rispondere alle domande del pubblico. A rompere il solito imbarazzo è un bambino. Non avrà più di 7 o 8 anni. E giustamente, come si fa quando si vuole parlare con qualcuno, si alza, attraversa il palco, si avvicina all’attrice e chiede: “perché alla fine tu avevi in mano la maschera?”. È vero: al momento degli applausi lei teneva in mano la maschera fluorescente dei light killers e lui invece no. Io non ci avevo nemmeno fatto caso. Lei, con voce calda, risponde: “Perché i light killers sono nell’immaginazione di Hotcal. E quindi fanno parte solo del suo destino”. Il bambino resta fermo e non dice niente. Il pubblico aspetta una sua reazione ma lui continua a starsene lì, immobile, al centro del palco, a fissare l’attrice. La signora vicino a me ridacchia e dice “haha, poverino, non ha capito niente!”. Secondo me, invece, sta capendo tutto. Lo sta facendo in questo momento, gli serve solo ancora un po’ di silenzio, ma il silenzio è una di quelle cose che noi adulti abbiamo disimparato e allora ecco che scoppiano le prime risate e poi gli applausi e il bambino è come se si risvegliasse di colpo, corre via e salta letteralmente in braccio alla sua mamma, nascondendo la testa nel suo cappotto.

Quando esco, mentre ancora mi sto chiedendo se questi sabotatori della mia luce siano fuori o dentro di me, sento alle mie spalle una donna che dice: “Hai capito cosa ti ha risposto l’attrice?” La replica immediata, secca, decisamente affermativa, ha la voce di un bimbo senza un briciolo di esitazione. Vorrei voltarmi e chiedergli “Scusa, lo spieghi anche a me, per favore?” ma sono troppo adulta, ormai, per fare la cosa giusta.

5 cose che ho imparato sull’amore (guardandolo da fuori)

david-claudiaVoglio sottolineare che la presente lista di regole non è come le altre, poiché è redatta da una che l’amore lo osserva da una certa distanza – tendenzialmente quella che non consente di consumarlo – per cui è per ovvi motivi la più attendibile di tutte.

1) Certi amori non finiscono

diceva Venditti. E secondo me è vero. Cioè no scusate, secondo me tutti gli amori finiscono – eh lo so, mi spiace dirvelo così – ma comunque volevo dire un’altra cosa: ho imparato che alcuni, proprio quando finiscono, diventano eterni per davvero. Anche quando ci si è giurati che basta, cancello il tuo numero, butto le mail, do fuoco al computer, mi ammazzo, ti uccido, esci dalla mia vita. Anche dopo essersi riavvicinati e allontanati mille volte, fino a perdere le forze. Anche a distanza, si può restare abbracciati per sempre.

2) Se non siete Claudia Schiffer, lasciate stare David Copperfield

Il 90% dei racconti sentimentali femminili si conclude con “lui è sparito” e questa è una cosa che abbiamo già detto diverse volte: molti uomini si smaterializzano più in fretta di un illusionista. Detto questo, mettiamo tranquillamente in conto che, nel giro di qualche giorno, il vostro uomo si ri-materializzerà sotto mentite spoglie (uomo pentito / uomo in crisi / uomo che ha capito) e a quel punto la questione è: che fate, ve lo riprendete? Brave. Credete che stavolta sarà diverso? Bene. Allora scusate se non gli daremo torto quando sparirà di nuovo.

3) Fatevi le domande giuste

A volte capita di fissarsi su una persona o un rapporto che non si capisce bene da che parte vada. No no, su, non sentitevi stupide, capita anche a noi intelligenti. Alcune ci perdono il sonno, perfino il senno, a cercare d’interpretare i segnali – un sorriso apparentemente complice, il sottotesto di una frase, il like ad un post – a tentare di comprendere le accelerazioni e le frenate improvvise per trovare risposte a domande che si moltiplicano. Ma la verità (lo sappiamo, vero?) è una e una sola: quando ci si piace ci si cerca. Punto. Non esistono i momenti giusti o sbagliati, esistono solo le persone giuste o sbagliate. E allora perché accanirsi?

Forse per orgoglio. O forse perché è così raro che qualcuno riesca a riaccendere in noi un minimo d’interesse che quando succede preferiamo non interrogarci troppo e lanciarci senza sapere neppure in che cosa, giusto per non ripiombare nella noia che quotidianamente ci affligge. Chi lo sa? Non lo sappiamo nemmeno noi, però intanto eccoci lì, con la faccia da ebeti, a domandarci per tutto il tempo:

“Che cosa ho, io, di sbagliato? che cosa gli ho fatto di male? perché gli interesso così poco?”

E siccome le risposte da fuori non ci arriveranno, chissà quante conclusioni affrettate sapremo scovare dentro di noi, che potranno andare ad alimentare efficacemente tutto quel fardello di sofferenze, sensazioni di inadeguatezza, orgogli feriti, bisogni di piacere a tutti i costi che ci portiamo dietro… quando ciò che converrebbe chiedersi a monte, ma molto molto prima di tutto il resto, è piuttosto:

“Che cosa ha, lui, di speciale? che cosa ha fatto per farmi stare bene? perché mi interessa così tanto?”

Vi verrà in mente il nulla e a quel punto voltare pagina sarà poco più di un attimo.

4) Se esprimete un desiderio, formulatelo bene

Tipo, facciamo un esempio: spegnendo le candeline avete chiuso gli occhi e consegnato al destino un romantico e banalissimo “Vorrei innamorarmi”?

SBAGLIATO. Perché secondo voi il destino ce l’ha il tempo di star lì ad aggiungere annessi e connessi a quello che gli diciamo? No. E allora che succede se sente un desiderio formulato in questo modo e lo prende alla lettera? Non pensiamoci nemmeno, guardate. Piuttosto, riformuliamo come si deve… Ripetete con me, per cortesia:

“Vorrei innamorarmi
di un essere umano
capace
di intendere
e di volere
ed essere da lui
follemente
ricambiata
“.

5) Fine.

Disclaimer: questa è una storia d’Amore

iosergio1Adesso, lo so che non c’entra niente. Ma sapreste dire, fra tutte le immagini che la vostra mente è riuscita a conservare negli anni, quale sia quella più lontana? Ce l’avete, voi, il “primo ricordo” della vostra vita? Io credo di averlo.

Era un giorno di settembre di 29 anni fa, io ne avevo compiuti 3 da poco e, come in tutte le estati della mia vita (tranne l’ultima) ero nella villa di campagna dei miei nonni. Un’auto si è fermata di fronte al portico sul retro, i miei genitori sono scesi, qualcuno (non so bene chi) ha tirato fuori dal sedile posteriore un porte-enfant bianco e me l’ha avvicinato perché io potessi guardarci dentro. È così che ho conosciuto Sergio, mio fratello. I presenti narrano che la prima cosa che dissi, in quel momento, fu: “È mio?”.

Mamma e papà devono aver fatto un lavoro della madonna per prepararmi a quell’evento, perché non ricordo di aver provato mai nemmeno un briciolo di gelosia nei confronti di quel bambino. Se cerco di ricostruire quel primo giorno, ricordo solo la felicità, il senso di orgoglio e di responsabilità che provavo all’idea di essere la sua “sorella maggiore”.

Crescendo ci siamo scoperti molto diversi. Da piccoli raramente giocavamo insieme: io passavo l’inverno in casa, per lo più da sola o al massimo con un’amica alla volta. Ma da sola era meglio: così ero libera d’inventare avventure stucchevoli per le mie Barbie – e non dovermi mettere d’accordo con nessuno su come sviluppare l’intreccio delle storie -, leggere libri oppure rinchiudermi nello stanzino a scrivere racconti pieni di fantasia ma fastidiosamente ricchi di particolari inutili come questo post. Il giovedì suonavo il pianoforte, ma solo il giovedì, perché poi la sera avevo lezione e volevo almeno arginare l’inevitabile figura di merda col maestro. In primavera stavo molto fuori casa, anche se non ricordo a fare cosa, dato che vivevo le attività ludiche più classiche (come il nascondino, il rubabandiera e le gare di salto con la corda) come delle violenze inconcepibili nei miei confronti. Mio fratello, invece, trascorreva l’inverno a sciare e la primavera a giocare a calcio, andare in bici, rompersi qualunque arto cadendo dagli alberi e dai muretti o scappare di casa e farsi ritrovare al confine con l’Austria, non si è mai capito bene perché.

L’adolescenza ha seguito i trend dell’infanzia: lui l’ha passata a inventare sempre nuove idee per rischiare il riformatorio, io a studiare per compiacere gli altri (più che per reale passione), ad ascoltare musica anni ’90, a prendermi e lasciarmi con il mio fidanzatino (una soap di 5 anni che manco Dawson e Joey) e a perseguitare le tipette con cui limonava mio fratello, la cui unica colpa – poveracce – era quella di non risultare, ai miei occhi, mai degne di lui.

Perché dietro al bambino troppo vivace e all’adolescente turbolento io vedevo solo ciò che è sempre stato e ricordo con dolore quegli stupidi discorsi, che ogni tanto capitava di sentire (mai dai nostri genitori, grazie a dio), sul “perché non prendi esempio da tua sorella”. Mi facevano male, temevo che un giorno lo avrebbero portato a odiarmi, ma soprattutto non riuscivo a immaginare come facessero parenti, insegnanti e altri sguardi poco attenti a non scorgere tutto il valore che c’era nell’intelligenza delle sue battute, nella profondità del suo pensiero, nel suo modo un po’ rude e così tenero di voler bene. Come potevano non capire che eravamo soltanto diversi e che per tanti aspetti era lui quello migliore? Il tempo mi avrebbe dato ragione, ma nel mentre a me non restava che avere paura. Della sua fragilità, della sua apparente incapacità di scegliere che direzione prendere, dei motorini dopo le serate alcoliche, delle persone sbagliate, di tutte le cose che non avrei mai potuto fare per proteggerlo dal male.

iosergio3L’università e il bisogno di fuggire da una città che mi stava stretta mi allontanarono da casa. Lui mi parlò solo anni dopo del vuoto che gli lasciai. Quando tornavo a casa, il venerdì sera, mi aspettava sveglio e passavamo ore seduti sul mio letto a raccontarci di noi. Tre anni dopo fu lui ad andare via di casa, appena 23enne, per costruire una famiglia sua. Non gli ho mai parlato del vuoto che provai, le prime volte che non l’ho trovato in camera ad aspettarmi, né della gelosia vergognosa che nutrivo nei confronti di quel figlio che sarebbe arrivato a portarmi via una parte del suo affetto e delle sue attenzioni. Non riuscivo a immaginare come sarebbe stato quel bambino e ancor meno Sergio, nelle vesti del padre. Poi Alberto è nato e le domande non sono più servite perché, appena l’ho stretto, amarlo dal primo istante è stata l’unica possibilità.

Nel frattempo mio fratello è diventato un Uomo. Di quella fragilità, di quel non sapere mai che direzione prendere, improvvisamente non si è avuta più traccia. E non per atteggiamento o simulazione (l’avrei capito in un istante), ma per davvero: con la consapevolezza e la straordinaria fermezza di un ragazzino che tutti credevano debole e che di punto in bianco, per amore, ha scelto di crescere.

Domani quel ragazzino compirà 29 anni ed entrerà nel suo trentesimo anno di vita, Il che, nonostante tutto, a me sembra incredibile. Forse non smetterò mai di vederlo come il mio fratellino piccolo, come forse non guarirò mai dalla paura dei motorini, delle persone sbagliate e della mia impossibilità di difenderlo dal male.

sergioalby

Questa, sì, è una lettera d’amore. E nasce così, senza un particolare motivo. Perché sappiamo che l’amore va dimostrato, però secondo me a volte va anche detto. Se non ci fosse il kebabbaro sotto casa mia – che mi regala le bibite, mi fa gli sconti sulla pizza e ogni giorno mi saluta con un “Ciao Dottoressa!” – potrei dire che mio fratello è l’uomo migliore che sia mai entrato nella mia vita. Tuttavia, i kebabbari passano, lui invece è la mia grande fortuna, perché sarà nella mia vita per sempre.